LIFE CARE. L’importanza del linguaggio. Colloquio con Attilio Stajano.
- Written by Franco Boscolo
- Published in ricerca, etica
Life Care? End-life care? Cure palliative? Come possiamo affrontare il problema? Sicuramente il linguaggio, le parole, sono importanti.
Life Care, usando l’inglese, non svela all'istante alla nostra mente che si tratta di cure palliative, dove “palliativo” suona decisamente potente nel nostro immaginario: percepiamo un’idea di “inutile”.
Del resto un antidolorifico è una sorta di palliativo perché non cura la malattia, pertanto ognuno di noi assume spesso palliativi. Palliativo può, in certi casi, essere anche un’insensata permanenza in terapia intensiva, nel momento in cui per la persona non si ravvedano più speranze. Eppure l’assunzione di farmaci in terapia intensiva dà a noi la prospettiva positiva che qualcosa si stia pur facendo, mentre assumere palliativi sembra, psicologicamente, togliere speranza e ci mette di fronte ad un momento drammatico dell’esistenza del nostro caro, dimenticando o negando, che è un momento significativo per ciascuno di noi.
Argomento delicato che forse il nostro modello di società ripudia in toto; per fare un esempio, l’idea della bellezza a tempo indeterminato è immanente, perfino a partire dall’adolescenza qualcuno si lascia sedurre dai “ritocchini”, figuriamoci accennare al problema del fine-vita.
Eppure il tema è cruciale e ineludibile. Sono sul tavolo questioni fondamentali, da un lato l’aumento della vita media e, quindi, delle malattie degenerative, dall’altro l’evoluzione delle terapie mediche sempre più efficaci che “danno speranza” e il dilemma fra troppe cure oppure troppo poche, la dignità del fine vita; forse alla fine della vita il problema non è tanto quanto curare, ma come curare e conoscere il significato profondo del verbo “curare”, e poi il sapere, voler sapere o non voler sapere.
Ne abbiamo parlato con Attilio Stajano, laureato in Fisica, ora pensionato, che dal 2009 lavora a Bruxelles come volontario in un reparto ospedaliero di cure palliative per malati terminali.
“Penso che non sia possibile comprendere veramente la condizione umana se non si accetta che questa comporti anche la sofferenza, la malattia e la morte. Allo stesso modo in cui non si può comprendere il Sud se non si va a visitare Scampia, che è una periferia di Napoli nella quale neppure la Polizia può pattugliare in sicurezza, ma che è allo stesso tempo il luogo del degrado, della droga, della criminalità e luogo della Resurrezione della ricerca di un’alternativa, il luogo dove ci sono delle belle scuole, dove i giovani hanno una prospettiva di avvenire. Non si può capire Napoli se non si coglie questa doppia faccia della periferia o dei quartieri malfamati come il rione Sanità.
Allo stesso modo non si può capire la condizione umana se non si va in un ospedale almeno una volta a vedere un amico che soffre, non comprendendo che la sofferenza è qualcosa che fa parte della nostra vita, che bisogna accoglierla e saperla vivere, in modo da godere poi di tutto quello di bello che la vita ci offre e ringraziare il Buon Dio e le persone che ci consentono di essere felici, di avere delle belle esperienze durante l’esistenza che non è solamente sofferenza, dolore, malattia e morte, ma che comprende queste dimensioni.
Il linguaggio certamente è importante, bisogna non ferire l’altro con un linguaggio troppo crudo, ma il segreto è quello di non parlare troppo con le persone che s’incontrano all’ospedale e che sono vicine alla morte, il miglior linguaggio è quello del silenzio, il silenzio che è una presenza, che è quello che abbiamo sperimentato a diciotto anni uscendo con una ragazza, andando a spasso nel bosco: non c’era bisogno di tante parole per esprimere quello che tu sentivi per lei.
Bisogna imparare ad uscire dalla frenesia dell’azione e, invece, esserci, essere presenti, senza necessariamente esprimere con le parole il proprio sentire, ma aspettare che il paziente trasformi il suo lamento in parola, in dialogo e, se fosse possibile, in incontro e allora il suo cuore si apre e si trova la frequenza sulla quale comunicare; è un linguaggio che va adattato, con discrezione al contesto: non si può parlare allo stesso modo con un bambino oppure con un anziano e mai con una persona senza tener conto del contesto della sua vita.
A me capita qui Bruxelles, che è forse la città più internazionale in Europa, dove ci sono tanti stranieri, di incontrare persone cinesi e di molti altri Paesi dei quali non conosco la lingua, però si può stare insieme lo stesso, e soprattutto scoprire altre forme di comunicazione che sono per esempio, abbracciare, toccare, carezzare, massaggiare, cantare, ed in questo modo stabilire una vicinanza che va ben al di la delle parole”.
Pare che Lei descriva una cultura contadina che non c’è più, così vicina nella cura e assistenza dei propri famigliari; si può recuperare?
“Ecco sì, tutto si è un po’ disumanizzato e la società ci presenta degli schemi edulcorati e, in un certo senso, falsi. I migranti che arrivano in Europa l’hanno vista attraverso la televisione e loro sembra una sorta di paradiso terrestre, s’immaginano che la vita sia tutta, fiori, danze, balletti e pranzi e, invece, la vita naturalmente è altro, contiene anche la sofferenza, la tristezza, la povertà, la miseria, la malattia.
C’è una società che rifiuta la realtà dell’esistenza umana che non guarda al senso ultimo della vita, anzi è quasi un tabù: il domandarsi qual è il senso ultimo della vita. Il senso è quello che si può comprendere stando vicino ai malati, perché i malati che sono alla fine dei loro percorsi, si sbarazzano via, via, del superfluo, e allora ti rendi conto che i tuoi libri o il tuo giardino o il tuo conto in banca non sono niente, quello che conta sono solamente le relazioni umane e i ricordi delle cose belle, degli amori che hai vissuto, anche degli amori di cui ti vergogni, perché sono andati a finire male, o perché c’è stato qualcosa di storto. Nella misura in cui c’è stato amore vero, allora si è colto un frammento dell’amore universale che è la fonte della vita ed è quello che ti rincuora e che ti da gioia anche nelle ultime giornate della tua esistenza”.
“In interiore homine habitat veritas”: c’è davvero bisogno di dire tutto a tutti i costi?
“Ci sono delle comunicazioni segrete dento la persona umana che dicono delle verità che non si osano pronunciare, allora anche se sei circondato da famigliari e sanitari che ti rincuorano e che ti danno coraggio, c’è un messaggio tramite il quale il tuo corpo ti comunica che sei arrivato al capolinea. Questo è quello che io ho visto anche in molte persone che non vogliono sentir parlare dell’imminenza dello loro fine, anche se, in fondo, in fondo, sanno che questa è prossima.
D’altra parte non siamo tutti quanti uguali, alcuni vogliono sapere, avere il controllo su tutto, altri si lasciano andare a quello che è il loro percorso, il loro destino. Bisogna rispettare una posizione come l’altra e accompagnarli e soprattutto sincronizzarsi sulla loro frequenza. Quando un amico mi dice: “…adesso il cancro si è diffuso anche nel fegato, mentre prima ero stato operato al colon…” non si può andare a dire dirgli: “…vedi che come sei guarito la prima volta guarirai anche la seconda…” non si possono dare false speranze o, peggio ancora, raccontare delle banalità: “…sai che quest’anno la Juventus vincerà lo Scudetto…”, oramai queste son cose che non interessano più.
Bisogna dare dei messaggi di fiducia nella struttura sanitaria nella quale si è ricoverati, di speranza, non già di guarigione, ma di poter essere sereni fino alla fine, un messaggio di amicizia: sono tuo amico e non ti abbandono, i tuoi famigliari resteranno vicini a te anche fino alla fine, non sei solo”.
C’è anche la difficoltà dei famigliari che non vogliono lasciar andare il proprio caro e poi la medicina progredisce, migliora le sue prestazioni. “Quella che bisogna evitare, è un’irragionevole ostinazione a proporre delle cure al di là della frontiera del buon senso quando è chiaro che la diagnosi è infausta, perché invece di prolungare la vita, si prolungano le sofferenze. Noi dobbiamo dare vita ai giorni che restano e non autorizzare terapie che ci portino ad uno stato vegetativo; l’ultima legge sulle decisioni anticipate consente di rifiutare delle prestazioni sanitarie quando queste sono irragionevoli o inutili, ed è molto importante che i medici imparino a perdere la lotta contro la sopravvivenza. I medici sono formati per guarire le persone, non hanno imparato ad accompagnare i pazienti alla morte, mentre non c’è niente di più certo e naturale che terminare la propria vita. Così come le piante e gli animali anche l’uomo è mortale e i medici devono imparare a trovare il loro ruolo accanto al letto del malato che si spegne. Molto spesso lo vivono come una sconfitta e ci sono casi di medici che preferiscono abbandonare il malato nelle mani delle infermiere perché non hanno il coraggio di far fronte a questo momento di verità”.
Se l’Accademia non forma i medici nel senso da Lei indicato, chi educherà i nostri giovani ad affrontare il senso della vita, la famiglia? La scuola?
“Io me lo auguro, infatti, è indispensabile lavorare nella scuola per sensibilizzare i giovani a cogliere qual è il valore ed il significato della loro esistenza e accompagnare il loro nonno piuttosto che lo zio, che muore con la serenità che fa sì che questa persona ammalata possa terminare la propria esistenza accompagnata dall’amicizia, dall’amore, dagli affetti famigliari. Spesso i bambini son tenuti lontani dai parenti anziani che sono in fine di vita perché vogliamo lasciar loro la memoria della piena vitalità del loro caro, viceversa, può essere un’esperienza ricca. Io sono ancora grato ai miei genitori che hanno accolto la nonna a casa per cinque anni, durante la sua malattia terminale, e che mi hanno mostrato che si può morire negli affetti famigliari, nella serenità nella naturale comunicazione che continua su dei piani che si trasformano via, via che la malattia prende spazio nella vita, ma non emarginano il morente dalla società e dalla famiglia”.
L’accudimento a casa e l’assistenza domiciliare rimangono le migliori soluzioni.
“Quando è possibile, è raccomandabile: non c’è niente di meglio che morire in un posto che mi è famigliare dove ho i miei punti di riferimento. Non bisogna comunque aver paura di accompagnare papa o mamma all’Hospice o all’ospedale, se ci sono situazioni di patologia o di logistica e di organizzazione familiare tali da non raccomandare l’assistenza domiciliare. Ci sono certe patologie per le quali è impossibile assicurare il benessere del malato morente a casa. Allora è doveroso accompagnarli nei posti giusti: in Italia ci sono 800 Hospice, per non parlare di Bolzano che è uno dei punti di riferimento per le cure palliative a livello nazionale; ci sono Hospice dove incontrare la morte in serenità”.
Franco Boscolo
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